Il corpo come rifugio
Disegnare il corpo è, per me, un modo di tornare a casa. Ogni curva, ogni pausa, ogni tratto di ombra diventa una soglia: tra carne e pensiero, tra respiro e memoria.
Il corpo è un luogo che parla, anche quando tace.
Il corpo non è solo materia o forma ma un luogo di incontro: uno spazio dove la vita e la vulnerabilità si toccano.
In molte tradizioni artistiche, il corpo è stato oggetto di sguardo, misura di bellezza o di potere. Nella storia dell’arte, il corpo ha attraversato secoli di rappresentazioni, ma ciò che non è mai cambiato è il suo essere portatore di significato.
Fin dalle prime statuette preistoriche — come la Venere di Willendorf — il corpo femminile è apparso come simbolo di fertilità, di accoglienza, di vita che si rinnova.
Non c’era erotismo in quelle forme abbondanti e chiuse su se stesse, ma una sacralità originaria: il corpo come grembo, come rifugio, come promessa di continuità (della specie o più semplciemente delle progenie).
Da allora, la figura della Venere ha accompagnato l’arte come un archetipo mutevole.
Dalla compostezza ideale della Venere di Milo alla grazia sospesa della Nascita di Venere di Botticelli, il corpo è diventato immagine del bello, ma anche del desiderio, dell’attesa, del mistero.
Eppure, in ogni epoca, dietro la superficie estetica, resta quell’idea primordiale: il corpo come spazio che accoglie.
Non più solo forma da contemplare, ma presenza che avvolge.

Come non potrei citare Klimt, con L’abbraccio, a come quest’opera restituisce pienamente questa idea.
Le sue figure non sono due corpi distinti, ma un unico intreccio di linee, oro e calore.
L’abbraccio, in lui, non è un gesto decorativo, ma un atto di fusione, di protezione, di riconoscimento.
Forse è la lingua più antica che possediamo, quella che impariamo prima ancora di parlare: il contatto, il calore, l’appartenenza: una comunicazione senza parole, dove il corpo diventa voce e silenzio insieme
Ma se ci pensiamo bene “questa” fisicità data dall’abbraccio attraversa tutta la storia dell’arte.
Potrei citare il Bacio di Hayez, dove il gesto amoroso è sospeso tra passione di esserci e un addio, tra desiderio e la fuga: un amore che nasce, cresce e si consuma nell’attimo stesso in cui si compie.

Si potrebbero anche citare gli abbracci materni delle Madonne del Rinascimento, da Giotto a Michelangelo, da Raffaello fino a Caravaggio, dove la tenerezza si intreccia al presagio della perdita ma non per questo privi di protezione e amore.
In quelle immagini l’abbraccio diventa la metafora più alta dell’amore umano, fatto di unione e separazione, di cura e fragilità.
Forse è proprio per questo che torno a disegnare il corpo: perché nel gesto che accoglie, nel contatto che consola, riconosco la verità più semplice.
Non un corpo da osservare, ma un corpo che ricuce; non una figura da ammirare, ma una presenza che riscalda.
In fondo, l’abbraccio è l’origine di tutto: è nascita, conforto, riconciliazione.
Forse la memoria di una vicinanza che ci salva, anche solo per un istante, dall’essere soli; è tutto questo è il corpo a comunicarcelo con le sue forme, il suo calore la sua presenza.
Presenza che è calore, come già detto, ma anche contatto e appartenenza: una comunicazione che non ha bisogno di spiegarsi ma che quando manca si sente come se mancasse quel luogo che chiamiamo “casa”.
E se ci pensiamo la psicologia ha spesso descritto il corpo come la nostra prima casa. Infatti il corpo custodisce la storia delle nostre emozioni: è una biografia silenziosa, fatta di tensioni muscolari, di gesti trattenuti, di abbandoni e a volte anche cicatrici sia fisiche che psicologiche perché ciò che la mente dimentica, il corpo ricorda come una mappa della nostra vita.
Ogni linea del disegno, in fondo, è un tentativo di rendere visibile questa vita che scorre sotto la pelle.
È la sospensione di ogni distanza, un istante in cui il corpo smette di essere confine e diventa rifugio…È una dichiarazione di pace, un “resta” sussurrato senza voce.
Il corpo, allora, non è soltanto un limite, ma un ponte tra dentro e fuori, tra passato e presente, tra solitudine e contatto. Disegnarlo è un atto di ascolto: un modo per dire “sono qui”; ma anche “tu sei qui con me”.
E forse è proprio questo il senso più profondo dei miei disegni a carboncino, ovvero ritrovare nel disegno, nel corpo che disegno, il calore dell’umano, la quiete dopo il disordine, la certezza che, nei momenti più oscuri, esiste un rifugio possibile: l’abbraccio di un corpo.