mercoledì, Ottobre 8, 2025
ArteArtistime?!

Ciò che vedo con i miei occhi

Nella storia dell’arte occidentale, il concetto di bello è sempre stato legato a un canone. Policleto, nel V secolo a.C., con il suo “Canone”, aveva codificato proporzioni ideali del corpo umano: la bellezza era armonia matematica, equilibrio, misura. Un’idea che ritorna con il Rinascimento, quando Leonardo da Vinci e il suo Uomo vitruviano cerca di racchiudere il corpo umano in rapporti perfetti, simbolo della fusione tra arte e scienza.

Nei secoli successivi, questo modello viene variato ma mai del tutto abbandonato: dal trionfo dei corpi di Michelangelo, possenti e tesi di energia interiore, al recupero neoclassico che faceva dei modelli greco-romani un riferimento assoluto. La bellezza era ciò che rispondeva a un equilibrio universale, a un ideale riconosciuto da tutti.

Ma già dentro a questo orizzonte, i grandi artisti hanno iniziato a incrinare le regole. Caravaggio, con i suoi corpi popolari, intesi del popolo, illuminati da tagli drammatici di luce e ombra, rifiutava l’armonia classica in favore della verità. Rembrandt trasformava la ritrattistica in un’indagine psicologica, dove il volto scavato, segnato dal tempo, diventava più eloquente di qualsiasi perfezione.

Con l’arte moderna, la rottura è definitiva. La bellezza non è più il criterio: a volte viene persino negata. Van Gogh riversa sulla tela la propria angoscia e la propria vitalità interiore, con pennellate febbrili che non hanno nulla di armonico. Egon Schiele mostra corpi contorti, fragili, spigolosi, che parlano di inquietudine e vulnerabilità. Edvard Munch, con il famoso “Urlo”, traduce la disperazione universale in un’icona che vibra ancora, ben oltre la forma. In loro, il bello non è neppure soggettivo, ma l’urgenza diventa altro ovvero testimoniare la verità di un vissuto, anche se disturbante.

Questa evoluzione storica mi ha insegnato che il bello non è mai neutrale, né universale. È uno sguardo che cambia, un criterio che riflette il tempo e le sue tensioni. Ma soprattutto mi ha permesso di capire che il bello, per me, non è un ideale da raggiungere, ma un incontro da vivere.

Quando disegno, ciò che vedo con i miei occhi non coincide con il canone, ma con un frammento di verità: una curva che respira, un’ombra che custodisce silenzio, una luce che si posa come rivelazione. L’occhio non è mai un osservatore neutro: fa una scelta continua. Decide il punto di vista, il taglio e quindi cosa portare alla luce e cosa lasciare nell’ombra, e in quella decisione c’è la mia responsabilità e la mia libertà.

Il mio bello non deve essere canonico e spesso non lo è, né necessariamente piacevole. È un bello vissuto: fragile, imperfetto, unico. È il bello che rimane dopo lo sguardo, come traccia di un incontro dove puoi dire “io ti ho vista”.

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